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Fabrizio De André - 45 Giri
1968: Il Testamento

 

Il Testamento
Carlo Martello

Il Testamento
(Testo e Musica: Fabrizio De André)
Quando la morte mi chiamerà,
forse qualcuno protesterà,
dopo aver letto nel testamento
quel che gli lascio in eredità;
non maleditemi non serve a niente
tanto all'inferno ci sarò già.
Ai protettori delle battone
lascio un impiego da ragioniere,
perché provetti nel loro mestiere
rendano edotta la popolazione;
ad ogni fine di settimana,
sopra la rendita di una puttana,
ad ogni fine di settimana,
sopra la rendita di una puttana.
Voglio lasciare a Bianca Maria,
che se ne frega della decenza,
un attestato di benemerenza
che al matrimonio le spiani la via,
con tanti auguri per chi c'è caduto
di conservarsi felice e cornuto,
con tanti auguri per chi c'è caduto
di conservarsi felice e cornuto.
Sorella morte, datemi il tempo
di terminare il mio testamento,
datemi il tempo di salutare,
di riverire, di ringraziare
tutti gli artefici del girotondo
intorno al letto di un moribondo.
Signor becchino, mi ascolti un poco,
il suo lavoro a tutti non piace,
non lo consideran tanto un bel gioco
coprir di terra chi riposa in pace
ed è per questo che io mi onoro
nel consegnarle la vanga d'oro,
ed è per questo che io mi onoro
nel consegnarle la vanga d'oro.
Per quella candida vecchia contessa,
che non si muove più dal mio letto,
per estirparmi l'insana promessa
di riservarle i miei numeri al lotto;
non vedo l'ora di andar fra i dannati
per riferirglieli tutti sbagliati,
non vedo l'ora di andar fra i dannati
per riferirglieli tutti sbagliati.
Quando la morte mi chiederà
di restituirle la libertà,
forse una lacrima, forse una sola
sulla mia tomba si spenderà,
forse un sorriso, forse uno solo
dal mio ricordo germoglierà.
Se dalla carne mia già corrosa,
dove il mio cuore ha battuto il tempo,
dovesse nascere un giorno una rosa,
la do alla donna che mi offrì il suo pianto;
per ogni palpito del suo cuore,
le rendo un petalo rosso d'amore,
per ogni palpito del suo cuore,
le rendo un petalo rosso d'amore.
A te che fosti la più contesa,
la cortigiana che non si dà a tutti
ed ora all'angolo di quella chiesa
offri le immagini ai belli ed ai brutti,
lascio le note di questa canzone,
canto il dolore della tua illusione,
a te che sei, per tirare avanti,
costretta a vendere Cristo e i santi.
Quando la morte mi chiamerà,
nessuno al mondo si accorgerà
che un uomo è morto senza parlare,
senza sapere la verità,
che un uomo è morto senza pregare,
fuggendo il peso della pietà.
Cari fratelli dell'altra sponda,
cantammo in coro giù sulla terra,
amammo in cento l'identica donna,
partimmo in mille per la stessa guerra;
questo ricordo non vi consoli,
quando si muore, si muore si muore soli,
questo ricordo non vi consoli,
quando si muore, si muore soli.

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Carlo Martello (Ritorna Dalla Battaglia Di Poitiers)
(Testo: Fabrizio De André e Paolo Villaggio; Musica: Fabrizio De André)
Re Carlo tornava dalla guerra,
lo accoglie la sua terra cingendolo d'allor;
al sol della calda primavera
lampeggia l'armatura del sire vincitor.
Il sangue del Principe e del Moro
arrossano il cimiero d'identico color,
ma più che del corpo le ferite,
da Carlo son sentite le bramosie d'amor.
"Se ansia di gloria, sete d'onore
spegne la guerra al vincitore,
non ti concede un momento per fare all'amore;
chi poi impone alla sposa soave
di castità la cintura, ahimè grave,
in battaglia può correre il rischio di perder la chiave".
Così si lamenta il Re cristiano,
s'inchina intorno il grano, gli son corona i fior,
lo specchio di chiara fontanella
riflette fiero in sella dei Mori il vincitor.
Quand'ecco nell'acqua si compone,
mirabile visione, il simbolo d'amor;
nel folto di lunghe trecce bionde
il seno si confonde, ignudo in pieno sol.
"Mai non fu vista cosa più bella,
mai io non colsi siffatta pulzella",
disse Re Carlo scendendo veloce di sella.
"Deh, cavaliere, non v'accostate,
già d'altri è gaudio quel che cercate,
ad altra più facile fonte la sete calmate".
Sorpreso da un dire sì deciso,
sentendosi deriso, Re Carlo s'arrestò,
ma più dell'onor potè il digiuno,
fremente, l'elmo bruno, il sire si levò.
Codesta era l'arma sua segreta,
da Carlo spesso usata in gran difficoltà;
alla donna apparve un gran nasone,
un volto da caprone, ma era Sua Maestà.
"Se voi non foste il mio sovrano",
Carlo si sfila il pesante spadone,
"non celerei il disìo di fuggirvi lontano;
ma poiché siete il mio signore",
Carlo si toglie l'intero gabbione,
"debbo concedermi spoglia ad ogni pudore".
Cavaliere egli era assai valente
ed anche in quel frangente d'onor si ricoprì
e giunto alla fin della tenzone,
incerto sull'arcione, tentò di risalir.
Veloce lo arpiona la pulzella,
repente, una parcella presenta al suo signor,
"Deh, proprio perché voi siete il Sire,
fan 'zinque' mila lire, è un prezzo di favor".
"E' mai possibile, o porco di un cane,
che le avventure in codesto reame
debban risolversi tutte con grandi puttane?
Anche sul prezzo c'è poi da ridire,
ben mi ricordo che pria di partire
v'eran tariffe inferiori alle tremila lire".
Ciò detto, agì da gran cialtrone,
con balzo da leone in sella si lanciò,
frustando il cavallo come un ciuco,
fra i glicini e il sambuco il Re si dileguò.
Re Carlo tornava dalla guerra
lo accoglie la sua terra cingendolo d'allor;
al sol della calda primavera
lampeggia l'armatura del sire vincitor.

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